domenica 23 dicembre 2007

Romedio di Thaur

Nuvole di nebbia escono affannate dalle narici dilatate, ma sono l'unico segnale di fatica dalla pariglia di buoi tozzi e possenti che ha tirato il carro sulla neve greve di marzo. Il tragitto non è stato lungo, ma la strada stretta ed impervia lungo la valletta incassata tra le rocce che nascondono all'occhio dei profani il sacro rifugio di San Romedio e le travi di granito caricate sul carro hanno messo a dura prova gli zoccoli infangati. Ora sono fermi in una radura, l'uomo con la frusta ha infilato loro il muso nel sacco della biada e guarda nervoso in alto, verso il picco incombente, verso i tetti neri che sporgono appena alla sommità della roccia - Venite qua, voi! Servi della malora! - due ragazzi stracciati saltano come camosci di sasso in sasso
– Eccola la porta, padrone, eccola la porta! –
- Venite qua subito ho detto, venite qua demóni, che questo è luogo sacro! Ma perché non c'è nessuno, perché non è venuto nessuno? Non sono questi i patti! – fa schioccare la frusta ed agita i pugni prepotenti, ma arretra e si inginocchia umile quando, come d'incanto, il saio grigio compare sul sentiero - Che fai qui? Questo sentiero è cieco, che vuoi? –
- Perdonate Priore, la monaca ci ha ordinato di abbattere l'antica porta di legno del Sacro Bosco e di trasportarla alla pieve di Sanzeno, con cura di non procurarle alcun danno, quindi di sostituirla con queste travi di granito ben squadrate e con i volti scolpiti di San Romedio ed i suoi compagni, Davide ed Abramo. Ha chiamato me ed i miei giovani faméi perché sono bravo nel lavoro.. La monaca ci disse che l'avremmo trovata qui, ma io non la vedo! –
- Tutto il terreno attorno al rio Verdes appartiene al Rifugio e tu non ci hai chiesto il permesso di transito; tantomeno di fabbricare o disfare ciò che ci appartiene. Gira il carro e vattene –
II saio scompare lungo il sentiero e le parole non ammettono replica
- Forza, forza! Togliete il sacco alle bestie, forza! Girate il carro, via! –
i ragazzi fischiano ed urlano ai buoi mentre l'uomo con la frusta non sa trattenersi dal raggiungere quello che era l'obiettivo della spedizione.
La porta è lì, sul limitare di un bosco fitto di faggi affollati attorno alle acque avare del rio Verdes e non sembra un granché; il legno è fradicio e tarlato, gli infissi scossi dai secoli sembrano cedere al loro stesso peso, la serratura arrugginita. È lì senza una parete, un muro, una staccionata che la sostenga. O che dia uno scopo alla sua presenza.
- Questa vecchia porta è inutile, ma anche una porta nuova di zecca non servirebbe a nulla di più: che cosa avrà in mente la monaca? Il priore di certo lo sa, se ha opposto un rifiuto lo saprà, di certo! Ed io forse ho perso un buon lavoro.. -
La porta è lì, inutile e decrepita ma lui non osa cercare segreti oltre la linea immaginata, immaginaria, del confine che lei non ha in apparenza creato. I ragazzi fischiano e tirano calci ai buoi mansueti, l'uomo ritorna sui suoi passi e fa cantare la frusta.

- No, Aricarda, questa non è un'azione degna di te e della nobile famiglia alla quale tu appartieni.. - la voce del confessore è un fruscio di rondine ma giunge chiara alle orecchie della monaca che a testa bassa ascolta. Nella pieve di Sanzeno pochi ceri tremuli formano appena un presepe nel buio opaco delle navate, non fanno nemmeno brillare i teschi dei martiri adagiati sulle proprie ossa nei sacelli, nè le braccia larghe del Cristo sopra l'altare spoglio, nè gli occhi accesi dentro gli ampi cappucci; solo il sussurro del prete.
- Il Priore del Rifugio è uomo umile e rispettoso dei Sacramenti, ma di buona cultura e non privo del senso di autorità che compete al suo ruolo: egli conosce la storia della porta, egli sa quali sono i confini tracciati da quelle vecchie assi marce.. le tue pietre ornate di sculture non hanno significato, non conoscono la storia, la radice della morte di Remigio nobile di Taur e della nascitadi San Romedio. Solo quelle travi cadenti di secoli possono raccontare un fatto così inaudito.. –
La voce altèra della monaca Aricarda non è incrinata da dubbi.
- Dopo la morte del grande Eremita il Rifugio è rimasto in stato di rovina ed abbandono, alla mercé dei miseri che fuggivano dalle scorribande degli invasori prima e scampo per ladri ed assassini poi: dopo cent'anni dalla grande paura del Mille la Chiesa ha destinato quel luogo sacro a Santuario e ne ha costruito le fondamenta! Perché quell'uomo buono e pio non continua l'opera? Perché il Priore non vuole accettare il mio dono, una nuova porta di granito che sostituisca le assi cadenti e manifesti con il volto dei santi e la croce di Cristo la sacralità del luogo? Che fa lui, materialmente, per innalzare il nome di Dio? –
- Aricarda, Aricarda.. sì, tu hai scelto la pietra ed il colore, hai ordinato allo scultore che cosa ne doveva ricavare, hai spiegato la misura delle altezze; avevi la mente distratta dagli accessi del palazzo della tua famiglia, oppure da quelli del convento! Porte che danno entrata in una stanza, o l'uscita sulla corte, o nella Sala dei convegni, o nelle cucine: ma dalla porta del Bosco Sacro, in che cosa si entra e da che cosa si esce? Non credere che sia qualcosa di simile alla porta della Vallavena situata ai confini del bosco, lassù alle tre ville, per proteggerlo dalla avidità dei contadini e non ha bisogno al tramonto di essere rinchiusa a tre mandate, nè le chiavi devono essere custodite nella sacrestia! La porta del Bosco Sacro è un passaggio verso.. verso.. Come posso spiegarti? Un passaggio diverso! –
- Diverso.. una parola che non spiega. Come potrò non guardare con occhio irato il Priore, uomo che sembra non nutrire pensieri ma soltanto convinzioni? È questa l'unica arma dei Minori quando affrontano ciò che non sanno spiegare? Io riconosco il Mistero del Cristo e mi servo della Fede per entrare in comunione con Lui: oltre all'affronto subìto dal legno della croce, sarà Egli costretto ad essere umiliato ora anche da qualche asse marcia? –
- Non tutto è mistero divino, Aricarda. Non bestemmiare! Ci sono buone ragioni per mantenere segreti che non necessariamente appartengono al Regno celeste.. –
- Certo. Questo vale per i villani, per gli infedeli, per coloro che non si sono avvicinati alle Scritture ed i posseduti dal Diavolo! Devo pensare di essere tenuta in tale considerazione? –
Le mani del sacerdote tormentano la barba fluente
- Bene, non sono sicuro che orecchie di donna, anche se monaca.. questo viene tramandato solo oralmente,capisci?, e la bocca di femmina, si sa.. È un grande onore che ti faccio, un segno di grande fiducia, mi raccomando eh? Aricarda, ascolta questa storia –

Le lame incrociate verso il cielo brillano e vibrano sotto la spinta dei muscoli potenti e della rabbia feroce. Remigio, nobile di Taur, sente che l'avversario sta percedere, che tra poco l'uomo che lui odia più di ogni altro al mondo piegherà le ginocchia, poi la schiena; e glioffrirà il collo. Ai lati della radura gli uomini in arme hanno accettato di buon grado che lo scontro si risolvesse tra di loro, tra i capi di quei due piccoli eserciti di taglialegna, ed ora partecipano con urla di incitamento o di timore all'andamento del duello; l'esito segnerà anche la loro fine o la vita e già qualcuno tenta di allontanarsi non visto. Infine il braccio lascia spossato la presa ed a Remigio non rimane che l'atto che precede la vittoria: il ferro si alza pesante al cielo, ma l'altro non offre il collo. Lo sguardo implorante, ma la voce ferma - Non uccidermi, Remigio. Che te ne fai di un cadavere?-
- Ti uccido perché non odio nessuno più di te, ti uccido perché ti ho sconfitto, ti uccido perché ne ho il diritto: ti uccido perché sono il più forte! -
- Sei il più forte, ma non il più saggio. In ogni valle dai monti Tàuri alle Alpi si raccontano gli scontri e le beffe, i duelli e le battaglie della nostra sfida; sei sicuro di voler scrivere la parola fine alle canzoni che di valle in valle ci rendono famosi? Sei sicuro di volerti liberare di un nemico cosi fiero da fare grande anche te? –
II ferro rimane proteso verso il cielo, senza esitare, ma rimane proteso al cielo. Veloci corrono i pensieri nella mente di Remigio, ma non sono le parole del Grande Nemico ad immobilizzare il braccio. Piuttosto, il ricordo della donna deforme incontrata ai margini della foresta, i suoi capelli grigi arruffati dalle dita sporche. E le sue parole.
"Sei un uomo che brucia i propri talenti! Li consumi uno ad uno e prima o poi non avrai più risorse, sei grande soltanto grazie alla pochezza altrui ma ricorda: il fuoco che ti tiene in vita è alimentato dall'ira verso il Grande Nemico! Se il Destino ti libererà di lui, per te sarà grave danno e finirai nel Nulla prima del tempo che la Natura ti ha riservato.."
Strega maledetta, e se avesse ragione? Ma il momento è delicato e si deve decidere in fretta. L'arma s'infila profonda nel prato.
- Presto voi, portatemi le catene! - un robusto collare di ferro si chiude attorno al collo del Nemico e la catena è fissata corta alla sella del Vincitore - Via, al castello! -

II castello di Taur ha le torri slanciate, il castello di Taur sta sopra un monte e domina valli e valli, sul castello di Taur la neve arriva da nord e la neve arriva da sud; ma il vecchio signore di Taur non ama il panorama. Ha due dolori il vecchio signore, la gotta e l'ultimo figlio: non sa quale faccia più male.
- Un guerriero che non sa uccidere mi mostra orgoglioso la sua magnifica preda: un guerriero che non sa morire.. Ah! E cosa siete venuti a cercare nel mio castello? Un tetto, del cibo, legna da ardere, donne! Ed io in cambio cosa avrò? Disonore! Remigio, o stacchi la testa che sta sopra quel collare o ve ne andate, tu ed il tuo nuovo cane! –
Remigio prepara il cavallo, carica il mulo di viveri e dei pochi averi, fissa la catena alla sella e getta una pelle d'orso al prigioniero. - Metterò il cavallo al passo, quando sarai stanco dammi una voce. Ho deciso che non devi morire: sei stato sconfitto e non ti rimane che ubbidire –
Sono dure le Alpi, dure per i ricchi e per i poveri. Dai boschi intricati alle praterie nevose delle cime; senza piante, senza sorgenti. Poi giù lungo i ghiaioni erti e pietrosi verso morene che seguono inerti i ghiacciai, ancora a scalare passi intravvisti che non offrono sbocchi, che lo costringono a ritornare sui propri passi senza incontrare mai anima; solo il crepitare dei sassi precipitati da zoccoli di stambecchi invisibili e tracce gialle di lupi sulla neve. Talvolta il conforto di un anfratto, una caverna al riparo dagli schiaffi dell'Ostro.
- Remigio, perché scappiamo tanto lontano? Non potevamo svernare in qualche valle laterale di Taur? Non potevamo aspettare la primavera presso qualche bifolco e lasciare che l'ira di tuo padre si sciogliesse assieme alla neve? –
- Io sto scappando, non tu. Tu non conti più nulla, sei mio prigioniero, uno schiavo. Non hai più passato nè futuro, devi solo camminare! Ringrazia gli dei, che quasi ti invidio: io devo pensare, decidere, seguire una direzione, evitare i pericoli, procurare il cibo, accendere ilfuoco.. tu ti limiti appena a seguire le mie impronte. Non stai forse meglio tu? E poi, dimmi la verità, speravi che sbollisse l'ira del vecchio o la mia? Puoi scordartelo, Nemico, puoi scordartelo! L’ira del signore di Taur nasce dalla gotta, la mia dall'odio –
- Remigio, qualche luna prima del duello ho incontrato una carovana di slavi: venivano da non so quale battaglia e proseguivano verso la terra di Persia, verso un'altra guerra. Perché non seguiamo i loro passi? Perchè non tentare la Fortuna? Hanno raccontato di regioni prodighe di ricchezze e di gloria per guerrieri valorosi. Pensa, due come noi.. –
- Basta! Finché avrai la catena attorno al collo non osare mai di metterti sul mio stesso piano! Per il momento sono il caso e l'orgoglio a tracciare il mio cammino! Che sarà anche il tuo! Ora tieni a freno la lingua se non vuoi che ti stringa il collare attorno alla bocca, raccogli la tua pelle e preparati, si riparte –
Alla fine il piano, un fiume, qualche villaggio, il ristoro delle comunità ma anche lo stupore, l'ostilità verso quello straniero che si porta appresso un uomo in catene. E allora via, ancora su; altri passi, altri monti fino alla valle dei Nones. Una valle larga e luminosa, cosparsa di rade ville disperse come massi erratici rotolati dal Caso, povera di viandanti e ricca di rape.
È stanco Remigio, come il cavallo, il mulo e il Nemico quando arrivano nella stretta valletta. Da lontano ha visto del fumo: qualcuno ci deve essere se ha acceso il fuoco nella neve alta, qualcuno ci sarà se nell'aria c’è odore di grasso di porco.
Ecco, proviene da lassù, da quel picco ripido ed il cavallo infila da solo il sentiero fangoso ed erto che porta alle mura basse ricoperte da un tetto di fieno fradicio di neve che scioglie. Libera il mulo ed il cavallo da soma e finimenti, li spinge nel riparo scassato della mangiatoia, getta le casse dei suoi averi in un angolo, non dimentica la catena ed entrano nel rifugio.
Nella stanza buia e puzzolente il fumo è denso e rancido, la vecchia risveglia il fuoco sventolando una frasca di pino ed al tavolo siedono due uomini; indossano pelli pesanti contro il freddo ma sul fianco le mani indugiano sull'elsa di corte spade. Soldati?
- Voglio mangiare, vecchia. Cosa mi puoi dare? –
- Minestra di rape, mezza coscia di maiale. E tu, cosa mi puoi dare? –
la donna carezza con mani avide la pelle che copre l'uomo in catene
- Per questa coperta posso farti dormire sulla paglia, strigliare le bestie e lavare i panni se ne hai.. Se mi lasci anche quello che c'è dentro la pelle d'orso aggiungerò pure qualche provvista per il viaggio, ah ah! È un bell'uomo, forte.. –
Anche i due soldati ridono - Cosa te ne fai di un nuovo servo, Pillona, non ci siamo già noi? Ah ah, la vecchia vuole carne fresca! –
Ma Remigio non sorride; non gli piacciono gli scherzi, non si fida dell'allegria. Dalle sue parti una risata in libertà può staccare una valanga di neve, mettere in fuga un camoscio a tiro d'arco, irritare un orso affamato, attirare un branco di lupi feroci, interrompere il canto d'amore del gallo cedrone: sopra tutto, scatenare l'ira terribile del vecchio signore di Taur, corroso dal sidro e dalla gotta
- Vecchia, ti lascerò i finimenti del cavallo: un po' di cuoio è sufficiente per qualche rapa e un osso di porco. Se tratterai bene le bestie forse ti darò anche una fibbia di bronzo, ma non farci conto -
I soldati si agitano sulla panca - Fai bene a non essere troppo generoso straniero, perché se vuoi proseguire il tuo cammino dovrai lasciare qualcosa anche a noi –
- Questa è una stazione di pedaggio? –
- Certo. Per chi sale verso il monte Roen, per chi scende verso il fiume Noce il passaggio è obbligato: e obbligatorio è il pedaggio in denaro o in beni che chiunque è tenuto a versare. E tutto va a finire nelle tasche del Sàlter, l'esattore del Regno. Nessuno sfugge, noi siamo qui per questo. La vecchia ci è testimone! –
- E se io rimango qui, che facciamo? Se io non transito nè verso il fiume nè verso il monte, devo pagare il pedaggio? –
I soldati si guardano sorpresi. Già, che si fa? Il più anziano si liscia la barba e scruta Remigio con due lingue di fuoco - Tu vieni dal popolo di là delle Alpi, vero? Il popolo degli uomini muti.. che poco conosce l'uso della parola, che non ride, che non sa scrivere, però tu hai parlato come un mercante d’oriente.. hai viaggiato? –
- Questo è il mio viaggio e sembra sia già finito –
- Amico, non so se è cosi semplice: potrei andare fino al castello del Sàlter a chiedere consiglio, ma ci vogliono tre ore di cammino. Fuori fa freddo, c’è la neve.. Non rimane che il giudizio del Sole, è più sbrigativo –
Dopo aver mangiato e parlato, i tre uomini ed il prigioniero escono dalla capanna lurida e scendono nella stretta valle del rio Verdes fino ad una radura senza erba nè piante, sovrastata da una parete sporgente di calcare che lascia filtrare l'acqua e la ragnatela di radici degli abeti che stanno sopra, sul bosco ripido che prosegue nel monte; nel mezzo una roccia piatta, larga e liscia attorno alla quale potrebbe sedere una decina di ospiti, di lato un'altra roccia appuntita verso il cielo. Sembra un piccolo teatro naturale, riparato dalle rocce incombenti che lo sovrastano; sembra nudo di Natura come se l'Energia che serve all'erba per crescere ed alle piante per svilupparsi fosse assorbita da quella grande roccia bianca; sembra un luogo apparso da un altro mondo, una magia senza eguali.
Sembra quello che è, in verità.
- Questa è la roccia sacra dalla quale, per volere del Padre, nacque Mitra, dio della luce! Nel giorno in cui il sole compie nel ciclo il percorso più lungo qui viene ucciso un toro e sulle rive del Verdes si battezzano i fedeli, ho detto bene Davide? –
- Certo Abramo, ma parlagli della porta, parlagli della porta! –
- Ah, la porta.. - Abramo si accarezza la barba e passeggia attorno alla roccia piatta, con gesti ampi e pomposi di cui soltanto i sacerdoti ed i mercanti sono capaci, di cui sono capaci le persone che mentono o che vogliono farsi gioco dei villani
- La porta, il giudizio del Sole! Io non so se sono nel giusto, se mi comporto secondo le Regole: certo tu non sei stato battezzato con l'acqua nè col fuoco, le tue mani non sono state unte di miele e non hai mangiato il pane sacro, nè bevuto il vino annacquato. Non hai percorso nemmeno uno dei sette gradi che permettono di arrivare al cospetto del Padre! Ma sembri un uomo determinato: hai una spada, un prigioniero in catene e vuoi fermarti qui per non pagare il pedaggio che spetta al Sàlter! Ascolta, vedi quella roccia ritta verso il cielo? Ebbene, dietro di essa c'è una porta in mezzo ad un prato: lì non entri in un castello, nè in una capanna, né in una stalla, nè in un recinto. Si dice, bada bene: è soltanto una diceria, che chiunque varchi quella soglia entri direttamente dentro se stesso! Straniero, non credo che gli uomini amino sfidarsi nello specchio dell'anima perché, ti assicuro straniero, che a memoria mia nessuno ha mai avuto tanto coraggio! - guarda spavaldo Remigio e aspetta la reazione.
- Bene. Io varcherò la soglia, supererò la prova! Dopo di ciò io sarò il padrone di questa terra, della rupe e della capanna. Voi e la donna lavorerete con me e per me ed il Sàlter non trarrà più benefici dal pedaggio perché i viandanti non saranno più costretti a pagare! Se io dopo esser entrato in quella porta ritornerò tra di voi, sarò la parola di questo vostro Dio e voi mi dovrete obbedienza. Lavoreremo la terra e costruiremo in cima al picco il nostro eremo! –
Si incamminano tutti assieme in silenzio, aggirano la roccia ritta verso il cielo e si fermano al cospetto della porta di legno.
Remigio non è sicuro di essere un uomo determinato, ma non può deludere i due soldati. Inforca le mani sui fianchi, spinge fuori il petto e si pianta a gambe larghe davanti alla porta: la studia.
Finge, sta soltanto prendendo tempo. Non ha mai sentito parlare di questo Dio del Sole ma tant'è, nelle valli che ha percorso non ha forse trovato fedeli di molti altri Dei? E la gente di Taur, non ha un numero quasi sconfinato di divinità? C'è il Fulmine, dio della vendetta, l'Orso, dio della forza, l'Aquila, dea della caccia.. Forse che non c'è posto anche per questo Dio del Sole? Ma questa strana usanza, questa prova della porta è un fatto nuovo, inquietante. Prova a spingere lo sguardo al di là ma non c’è nulla che non sia il prato, i giovani abeti bassi che si perdono poi nel bosco più fitto, le rive ghiacciate del rio Verdes; c'è forse che l'aria ora si è fatta fredda e penetrante e la neve ricomincia a cadere.
È tempo di decidere, anche se non ha scelta. E poi, anche trovasse uno specchio, che cosa deve temere da se stesso?
Il Nemico trema sotto la pelle d'orso - Remigio.. ricorda gli Slavi. Ricorda la Persia!.. -
E poi, anche trovasse un'anima, non basta forse un alito caldo per offuscare uno specchio? Remigio tiene ben stretta la catena, lancia uno sguardo ai due soldati, apre deciso la porta ed entra.
Remigio ed il Nemico scompaiono in un riverbero tremulo. Davide ed Abramo rimangono di qua, gli occhi spalancati, le bocche aperte. Non sanno che fare, cosa pensare, che cosa dire; prudenti, aspettano immobili.
Finché ancora si frantuma la luce e sulla soglia compaiono un uomo dal saio grigio e un orso bruno alla catena. I soldati si gettano a terra tremanti come chiunque durante una eclissi di sole
- Straniero.. Remigio di Taur, sei tu? –

I lumi friggono ormai sulla cera fusa ma la voce del sacerdote non smette di frusciare
- Capisci ora Aricarda? Quella porta è una fonte di energia che lentamente supponiamo si stia spegnendo assieme al legno che marcisce.. Non puoi ridarle vita con nuovi stipiti di granito che resisterebbero ancora secoli e secoli! Quella soglia non è opera di Dio ma nessuno oserà mai abbatterla: lasciamo che sia il Tempo a pensarci –
La monaca abbassa il capo, contrariata e confusa - Ma allora san Romedio non fu sacerdote di Cristo, ministro della nostra Chiesa: è stato illuminato da Mitra, il dio Sole! Perché è diventato oggetto di culto? Perché si parla dei suoi miracoli? Oppure fu convertito più tardi da san Vigilio ? E come fu che questo Remigio, un barbaro violento che viaggiava con un prigioniero alla catena, anche se il nemico più odiato, si trasformò in un uomo docile e religioso: un santo? –
- Piano Aricarda, piano. Questa storia si è trasmessa oralmente e molto si è forse perso, qualcosa si sarà aggiunto. Di quello che sappiamo non c'è certezza, ma la testimonianza dei soldati, Davide ed Abramo che poi diventeranno discepoli fedeli del Santo, dice che l'uomo del saio grigio alla loro domanda liberò l'orso e rispose: "Remigio di Taur non esiste più. Potete chiamarmi Romedio, che significa Eremita, e questo orso mi seguirà anche senza catene affinchè capisca che la libertà non ha bisogno di collari per essere imprigionata" . Capisci? Parole ambigue, sibilline: quale dei due era Remigio e quale il Nemico incatenato? Ma che importa infine, il popolo che viene in pellegrinaggio dalle valli più lontane ha decretato il suo amore per il Santo che viaggiava con l'orso accanto e che ancora si produce in miracoli per loro! Storia e leggenda si intrecciano in una verità desiderata, come una favola per i bambini; soltanto il mistero della porta del Bosco Sacro ci ammonisce sulla nostra ignoranza. Speriamo che un inverno duro e nevoso lo porti con sé. Per ciò che riguarda il tuo portale di granito, il Priore mi ha promesso che farà mostra di sé nella costruenda cappella di san Nicolò: spero che questo ti soddisfi, cosicché non abbia a lamentarti con tuo padre, persona eminente e generosa con la pieve –
La monaca Aricarda bacia la mano del sacerdote, si inchina davanti alla croce e si avvia turbata alla cella dove pregherà prima di riposare perché ha commesso molti, troppi errori.
Scuote la testa appoggiando le ginocchia sulla pietra - Dovrò pregare questa ed altre notti - ma è distratta. Le preghiere percorrono le vie consuete ma la mente ritorna indietro, alla fanciullezza.
La gioventù sbocciata e sfumata in una primavera appena, una breve stagione eterna nei sogni notturni. I prati rigonfi e gli alberi fioriti, la brezza soffice che risale la valle ed i raggi di sole che s'incollano tiepidi alla pelle; il gruppo di giovani amici, figli di nobili e meno nobili, allegri e festanti, pronti a cogliere ogni occasione di svaghi ingenui, senza malizia. Ma è inevitabile qualche sguardo, qualche sospiro, un bacio addirittura.
Al ragazzo sbagliato. Un errore.
Pulsa sotto la pelle candida, pulsa sulla tempia di Aricarda una rossa vena di rancore. È vero, il seme dell'inquietudine è germogliato in lei fin dalla età più tenera; nella mente prima, nel corpo poi. Ma mai, mai!, aveva permesso che trapelasse da sé, che potesse alimentare una voce, un sospetto; fino ad un pomeriggio felice. Chiassoso di giochi e di voci, sfrenato nell'impeto della corsa; fino all'incontro fortuito, fortunato, di due corpi sudati nel buio della stabbia. Non abbastanza buia. Perché, perché? Condannata al primo errore!Errore?

L'alba è appena accennata, la figurina nera che avanza nel chiarore senza profondità dell'inverno sembra un corvo nero che saltella nella bianca neve. Ma la monaca non ha tempo nè voglia di rispettare la compostezza dell'abito che indossa, ha ben altro per la testa.
La neve ghiacciata crepita sotto i passi decisi, il suono rimbalza sulle pareti di roccia su e su, fino a scomparire prudente sotto la roccia del Rifugio.
È davanti alla porta del Bosco Sacro finalmente; Aricarda si guarda attorno circospetta, si ricompone, aspetta finché il respiro si è calmato, poi si avvicina e la mano tocca la serratura ma la mente è tormentata dal dubbio. Che deve fare? Il legno marcio non riuscirà a superare l'inverno e gli uomini lasceranno sparire quel grande dono sotto la neve, il confine tracciato dalla porta si perderà nella prima erba di primavera e quel che è stato è stato. Senza ritorno. Che deve fare?
Ridere, ad esempio. Ride, Aricarda, ride soffocando la bocca con la mano, ride comprimendo gli spasimi del ventre perché non vuole svegliare i frati del Rifùgio, né i sospetti di quel Priore impiccione. Che ne sanno loro, che ne sanno? Che non sappiano! Che cosa credevano, che cosa credono: che lei non sia mai stata tentata dal segreto della porta, che lei non abbia conosciuto il mistero della porta? Che lei non ne abbia mai varcato la soglia?
E Aricarda siede su una gobba di neve ghiacciata ed entra nelle nebbie del ricordo.

domenica 2 dicembre 2007

il gatto

Il gatto è acquattato nell’erba del prato tra sterpi e rovi, ferraglia arrugginita ed intonaco scrostato, plastica stracciata e tubi corrosi. Si direbbe che la preda è lì, vicina, a portata di zampa; un topo, una cavalletta, una lucertola o una qualunque di quelle bestiacce che pullulano la jungla. Ma non me ne può importare di meno; sono le sette del mattino ed anche una domanda oziosa è pesante a quest’ora. Sì, io sono uno di quelli che pensano che alle sette del mattino tutto il mondo odi se stesso e che le guerre, le pestilenze, i terremoti, tutto ciò insomma che affligge l’umanità sia nato, e nasca, esattamente a quest’ora.
E me ne sto alla finestra, a guardare storto un gatto che non conosco ed a chiedermi perchè mi sono svegliato, consapevolmente suppongo, ad un’ora che mi detesta. Devo forse andare al lavoro? No, sono in ferie. Ho forse preso un impegno con qualcuno, qualcuno al quale tengo particolarmente? Neppure, tutti al mare. E allora? Ah già, devo rinnovare il passaporto.
Gli uffici della questura.. bah. Rumori: dita che battono impacciate vecchi tasti e suole di cuoio che limano pavimenti, antiquariato. Le automobili hanno i lampeggianti a specchio ma pneumatici lisci: odore di burocrazia. Chissà le domande in carta semplice e bollata per ottenere un cambio gomme.. a proposito, spero di non aver dimenticato niente: passaporto, marche da bollo..
- Scusi, l’Ufficio passaporti -
- Primo corridoio a sinistra, terza coda a destra -
La fila alle sette del mattino, alle sette del mattino! Mi arrendo all’evidenza e mi appoggio alla parete osservando ben bene la schiena di chi mi precede. Seguendo lui arriverò alla mèta senza discussioni sulle precedenze.
È un africano dall’aria spaesata e spossata, credo anche di conoscerlo di vista, o perlomeno di ricordare che abita nel vicolo dirimpetto casa mia, aldilà del praticello fetido che una vecchia zitella parente di scorpioni e scarafaggi non vuole cedere all’asfalto.
Una piccola comunità di ganesi, operai del marmo, un lavoraccio. Gente tranquilla che non fa casino a parte le marmitte dei loro trabiccoli. Direi proprio che è uno di loro e non c’è niente di strano nella sua presenza in questura perchè è il periodo in cui questa gente sta per partire per l’Africa a farci le ferie, a rivedere le madri, le sorelle e i fratelli che di solito sono una tribù intera, a riempirsi lo stomaco di pesce secco e gli occhi di tramonti. E si vede lontano un chilometro che non stanno più nella pelle per l’eccitazione quando scaricano dai loro trabiccoli sacchi di riso, scarpe, pentole, giubbini, frigoriferi. Ma come faranno a portarsi appresso tutta quella roba?
Sarebbe anche gente simpatica se non avesse quell’accento gutturale che sembra di Bergamo.
La coppia di questurini risale la fila con l’aria indolente e padrona di chi è con certezza sul territorio di competenza, mi sorpassa di appena un passo ed all’altezza dell’africano si ferma e gli sbatte un foglio sotto il naso
- Sei tu Jean e tutto il resto? -
- Sono Jean Kufour, no tuttoresto -
- Esatto, Jean tuttoresto, sei in arresto - e lo prendono sottobraccio spingendolo tranquilli nel ventre molle, nel dedalo inquietante della questura.
Cavolo, è vero che ho guadagnato un posto nella fila ma ci sono rimasto male: che sarà successo mai?
Non sono affari miei, mi incollo alla schiena successiva e prendo da tasca il quotidiano della nostra bella città.
“IL MISTERO DEL VICOLO. Scomparsa una giovane di colore: riti vodoo?”
Questa poi, a due passi da casa mia!
Il passaporto è a posto, il giornale sgualcito riposa ormai in un cestino ed io ho una intera giornata di beato nulla davanti: che fare? beh, potrei fare un salto all’osteria del vicolo, a farmi un caffè, a sentire che si dice.
Il vicolo in questione è cieco, reso angusto dalle automobili parcheggiate più che dalle facciate invecchiate delle case che lo sovrastano. C’è un’aria allegra, di solito, ma oggi è tutta un’altra storia.
Tanto per cominciare i lampeggianti della volante che rendono l’aria elettrica, poi l’osteria silenziosa. Piena di gente ma vuota di parole, incredibile.
Dietro il banco l’oste ostenta un’espressione da silenzio stampa, un’aria irritante da confidente che ti fa l’occhietto ma tiene l’acqua in bocca: gli ordini sono ordini e finchè quella volante non sgomma via..
Mi accomodo con la mia tazzina vicino ad un tavolo di briscola, mescolo ed aspetto. Fiducioso.
- Ma tienila in mano quell’asse di coppe, tienila in mano.. -
- Ma cosa tengo, o l’asso o la briscola.. -
- Ma ce l’ho io la briscola: prendo di re e torno a coppe, no? Ma perchè gioco in coppia con uno che non capisce un.. -
Il tono delle voci si è alzato e finalmente, come ad un segnale, nell’osteria si ritorna alla normalità. All’angolo del mio tavolo c’è l’Arnoldo, il barbiere. Uno strano giovane, in lotta con il mondo o forse con la natura che non l’ha dotato. È probabilmente la sua testolina perfettamente calva china sul bicchiere la causa di un mestiere intrapreso con la determinazione e la ferocia degne di un sioux: ed infatti nel quartiere tutti lo chiamano Kociss.
- Arnoldo, che ci fai al bar a quest’ora? - l’altro allarga le braccia come dire: è lunedì.
È vero, perdio, sono io che non dovrei esserci.
- Ma hai sentito di questa storia delle ragazze scomparse? Ho preso una settimana di ferie, stamattina sono andato in questura per il passaporto e lì ho saputo tutto: pensa che hanno arrestato un nero sotto i miei occhi! Davanti a me! -
Questa l’Arnoldo non se l’aspettava. Da un cliente che non ha mai fatto nè shampoo nè frizione ma, soprattutto, non parla nè di calcio nè del tempo questa non se l’aspettava.
- Cosa..? Hanno arrestato qualcuno.. e tu l’hai visto? Ma racconta, no? -
- No, non è leale. Prima voglio sapere che cosa è successo -
- Niente, non è successo niente. Nella palazzina accanto ci sono due appartamenti di ganesi, quanti sono non lo sa neppure il padrone di casa, comunque gente che lavora, eh? Ieri, domenica, tutto il gruppo è uscito per non so quale festa terzomondana e sembrava l’ultimo di carnevale: canti, richiami, vestiti dai colori sgargianti. Soltanto Guendalina se ne è voluta restare a casa. Quando sono rientrati lei non c’era più. L’hanno cercata dappertutto, hanno fatto un casino infernale ma niente. Scomparsa nel nulla. -
- Beh, ho capito, è scomparsa, ma cosa c’entrano i riti vodoo ? -
- Iiiih, si parla di africani, no? Lo sai come sono i giornali.. -
- Questi scimmioni retrogradi sono convinti che qualcuno ha fatto loro un “grigrì” e so di cosa parlo perchè ho fatto la campagna d’Africa, io! -
Il vecchio Anselmo si è seduto al nostro tavolo. Silenzioso come un fantasma, ipotesi che qualcuno ritiene fondata perchè nella sua falegnameria i vecchi macchinari sputano ogni santo giorno sacchi di segatura e lamenti di seghe rotanti ma lui, in apparenza, non c’è mai: sulla porta un perenne “torno subito”, silenzioso come un fantasma dicevo è comparso sulla sedia accanto
- ..e sapete che cos’è un “grigrì”? Una maledizione, una stregoneria e queste sono cose religiose, mica uno scherzo. Mi ricordo nel ‘36, in un’oasi del Sahara.. -
- A proposito di Sahara, ci è venuta una sete.. Arcibaldo, porta da bere - quelli della briscola evidentemente la conoscono a memoria la storia del deserto. Il pancione di Arcibaldo traballa assieme al vassoio quando la porta si apre con cautela e due occhi bianchi si affacciano spauriti nell’osteria
- Capo, posso mettere un manifestino? È la foto di Guendalina, posso attaccarla sulla porta? -
- Ma.. Archimede, certo che puoi, ma a che serve? Qui la conoscono tutti, a che serve la sua foto? -
Il vecchio africano si accascia affranto sul banco e tutti gli si fanno attorno
- Su, su Archie, non fare così, vedrai che tutto si risolverà... - parole di conforto, di commiserazione, di commozione, di compassione. Poi la curiosità prevale
- Ma la polizia cosa dice.. chi l’ha vista per ultimo.. aveva un moroso.. si faceva le canne.. siete cristiani o mussulmani.. non è che ve la siete mangiata.. -
- La polizia dice che segue tutte le piste: siamo tutti sospettati -
- Come sarebbe a dire “siamo”, “siete” sospettati! -
- No, no. Siamo. - e se ne esce, con la foto in mano.
La porta si richiude e l’osteria ripiomba nuovamente nel silenzio, di stupore questa volta.
- Ma.. ma come possono sospettare di noi? E poi, che cosa intendono per “noi”? Se intendono i clienti di questa onorata osteria non potrebbero cascare peggio: siamo o non siamo tutte persone nate e vissute qui, in questa città, siamo o non siamo uomini dalla vita specchiata, dalla fedina penale pulita? - Sandro, custode di un labirinto sotterraneo che nel medioevo era una probabile fogna della città ma che ora ostenta una pomposa insegna al neon con la scritta GARAGE, si è messo in piedi sopra una sedia e parla con un tono altamente indignato - Se non si trova un rimedio a queste frontiere colabrodo, se non si ferma quest’orda barbarica che ci sta invadendo dove andremo a finire?-
- In galera - quelli del tavolo delle carte, i soliti cinici. - In galera certo, se scoprono che è stato qualcuno di noi a fare del male alla ragazzina lo sbattono in galera. Una decisione ovvia, cosa c’entrano le frontiere e le orde barbariche? -
- E no, no! Il popolo di questa osteria è sintesi di generazioni native del posto, indigene! Noi siamo nati e vissuti qui, abbiamo respirato l’aria del fiume e mangiato il pane del forno di Aldo dalla nascita: questa è la nostra patria, chi non è dei nostri se ne vada! -
Gli sguardi della platea non sembrano particolarmente impressionati dalla concione, ciononostante puntano all’unisono verso il punto più buio della stanza. Mustafà se ne sta lì, con i tappeti ripiegati sopra il tavolo e l’aria tranquilla. La pelle olivastra ed i capelli ricci e bianchi
- Sono tanti anni che respiro l’aria del fiume e mangio il pane di Aldo. Sono anch’io un indigeno. -
E Aldo conferma, l’aria assonnata e la canottiera color farina, ma dal tavolo delle carte scatta la risata
- Ah, ah! È fuori dubbio che Alì è un vero indigeno, marocchino però: e cosa vuole, la doppia cittadinanza? Indigeno di qui e indigeno di lì! Ah, ah! -
La porta si apre con una ventata maleducata ed un giovane dal trench carico di giornali, bloch notes e telefonini si accomoda al banco
- Un caffè, per favore -
Arcibaldo lo squadra di sbieco mentre carica la macchina
- Liscio o corretto.. ma tu non sei il figlio di Maria, la sarta? Ma cosa fai qui, sei un questurino? -
- Sì, sì, sono il figlia della Maria, la conosceva? -
- Ma come la conoscevo.. tutti qui l’hanno conosciuta, vero ragazzi? - un coro unanime di assensi e consensi
- Gran donna tua madre, ma raccontaci di te. Perchè sei capitato nel vicolo proprio oggi? -
- Faccio il giornalista, sono venuto per la storia della ragazza -
- Ah, e cosa si dice di bello di questa storia? Che dicono le nostre autorità? -
- Beh, sono notizie riservate, capirete.. -
- Ma come riservate, se arrivano alle orecchie di un giornalista cosa vuoi che siano riservate?! Su, su, racconta! -
- Oddio.. che non si sappia in giro, eh? È arrivata una richiesta di riscatto -
- Riscatto? -
- Esatto. Una lettera che chiede un sacco di soldi ma, pensate, è quasi firmata! In fondo alla richiesta c’è una A e tutti pensavano che fosse una sigla anarchica, invece la A è puntata, come fosse l’iniziale di un nome, mi capite? Il nome di quello che l’ha rapita comincia per A! -
Un brivido percorre gli sguardi sbalorditi dei presenti, un brivido ed un silenzio tenace che si blocca sulle punte delle lingue finchè il giornalista non paga il caffè e non porta il trench affollato di notizie fuori, nel vicolo, al giornale.
- Hai capito.. avete capito adesso perchè il vecchio Archimede ha detto:”siamo”? -
Tutti scuotono il capo, ostinati
- Io mi chiamo Arnoldo, poi c’è Anselmo, Arcibaldo, Aldo, Alì Mustafà.. tu come ti chiami? -
Lo guardo come dire: ma che vuoi, non sono mica un abitante del vicolo, io!
- Beh, mi chiamo Andrea.. -
Il garagista si dimena sulla sedia
- Non è che voglio battere il tasto sulla questione, ma anche il padre della ragazza si chiama Archimede. Archimede, mi spiego? Non è che voglia difendere voi indigeni a tutti i costi ma.. -
- Scusa indigeno delle fogne ma non è che Sandro, per caso, sta per Alessandro? E poi, che interesse dovrebbe avere il padre della ragazza a chiedere un riscatto.. che dovrebbe pagare lui stesso? -
Adesso sono io ad alzarmi ed a prendere in pugno la situazione
- Ma insomma, gente, la storia del riscatto non sta in piedi: io non conosco quella gente, ma il giornalista ha parlato di una richiesta di un sacco di soldi. Ora, secondo voi, quanto potrebbero sborsare questi ganesi per riavere la ragazza? Secondo me poco, ma proprio poco!-
Un sospiro di sollievo si diffonde tra le boccate dense di emmesse - Ma certo che diavolo, quella lettera è una bufala. Chi volete che possa chiedere un riscatto a quei poveracci? -
- È chiaro che è così, però questo signor A. è evidentemente uno sciacallo, qualcuno che approfitta del dolore di quella gente perciò vi dico: noi dobbiamo fare qualcosa perchè nessuno, e sottolineo nessuno, possa pensare che chiunque di noi possa aver fatto qualcosa del genere! -
- Ma noi, che possiamo fare? -
- Risolvere il caso, arrivare alla soluzione, trovare il colpevole e prima che finisca nelle mani della giustizia giudicarlo e condannarlo qui, nell’osteria, nel cuore della città! -



Che strana giornata. Il tempo mi è sfuggito di mano, come si converrebbe ad una vera giornata di ferie per la verità, ma quello che è successo mi ha spinto in una dimensione eccitante e tenebrosa, molto ma molto più interessante di un bagnetto nel caldo brodo del mare Adriatico. Nel bar le discussioni e le ipotesi, le liti ed i vaffa si sono sprecati ma ora mi ritrovo finalmente nella calma penombra della mia stanza. A ripensare a questa storia.
Punto primo, la richiesta di riscatto è fasulla, ma dimostra che nel vicolo o dintorni si annida un vero serpente; punto secondo, nella concitazione abbiamo dimenticato l’arresto al quale ho assistito ma, per la verità, non ho nessuna certezza che fosse legato al rapimento della ragazza; punto terzo, sono curioso di verificare se le forze unite dell’osteria, con il loro patrimonio di pettegolezzi, calunnie e sottintesi, sapranno battere sul tempo le forze di polizia.
Mi affaccio alla finestra rivolta verso il vicolo, a guardarlo, a scrutarlo ben bene, a chiedergli di lasciar trapelare uno spiraglio dalle facciate scrostate; nel prato, intanto, il gatto è sempre lì al solito posto; assieme ad un corvo ed un paio di merli. Che diavolo stanno facendo? È una faccenda strana, forse insignificante ma ormai la scintilla del sospetto è scattata in me. Così mi infilo un paio di stivaletti da orto e scendo giù, nel prato.
Filo, spinato e arrugginito, rovi, resti organici ed inorganici, topi morti e ratti vivi: se nel Vietnam gli americani facevano uso di napalm, forse, non avevano in dotazione stivaletti come i miei.
Tra le ortiche e la gramigna il gatto tiene gli occhi semichiusi e la pancia gonfia all’aria, e rivolti al cielo sono pure i becchi gialli degli uccelli neri. Che schifo.
In mezzo a loro c’è una buca rossastra, nella terra smossa una lattigine verdastra, budella forse. Che schifo. I miei stivaletti prendono il volo, corrono veloci verso il vicolo, s’infilano nell’osteria. Finalmente dentro il bagno, vomito.
Finalmente esco, un ritorno alla vita. Mi aspetto di trovare tutta l’osteria fuori della porta del bagno a chiedermi come sto, che cosa è successo, perchè sono così pallido e sudato; nulla di tutto ciò. Solo le voci del tavolo delle carte, solo i problemi di un asso di coppe.
- Arcibaldo ascolta, c’è un problema.. - l’oste si avvicina circospetto, forse per via dell’abitudine piuttosto diffusa tra gli abitanti della zona a chiedere prestiti - Arcibaldo, ho trovato un cadavere.. l’ho visto, sangue e budella.. che schifo! -
- Cosa?! Ma dove, come, di cosa stai parlando? -
- ..nel prato, quella cosa è nel prato.. -
E quella che sembrava a me bieca indifferenza si è trasformata come d’incanto nell’alito ansimante ed ansioso dei presenti che mi soffia sul collo. E quando parlo di alito intendo proprio usi e costumi alimentari delle famiglie del vicolo, in particolare dell’ultimo pranzo.
Il sole è ormai al tramonto, le finestre dei dintorni mandano bagliori neutri da tubo catodico: nessuna donna che stende i panni, nessuna madre che chiama a casa i figli, nessun padre stanco che assapora il fumo della sigaretta al balcone, neanche una nonna che cerca il gatto. Una nebbiolina di calore avvolge il gruppo dell’osteria che circonda circospetto il buco rossastro, gli animali ormai gonfi sull’erba umida
- ‘azzo, è proprio vero! - poi silenzio, tutti ammutoliti.
È l’Arnoldo a rompere gli indugi
- Che.. che sia Guendalina? E chi altrimenti? Bisogna chiamare la polizia, subito! -
- No, no, calma.. non ci siamo forse impegnati a risolvere noi, l’osteria, questo caso? Se.. se chiamate la polizia.. pensateci.. le nostre iniziali cominciano tutte per A, ricordate?, se adesso risultasse che oltre a questa coincidenza siamo noi, proprio noi a scoprire il cadavere.. non è meglio prendere tempo, riflettere? - L’Arcibaldo dimostra di avere anche cervello, oltre alla trippa.
Il garagista approva con fermezza e spirito concreto
- Certo, hai ragione. In garage ho una lastra di ferro: buttiamo queste bestiacce tra i cespugli e copriamo il cadavere. Quando avremo deciso qualcosa avviseremo la polizia. -
Nessuno discute. Veloci e organizzati come un plotone di fanteria ci sbarazziamo dei corpi degli animali e ricopriamo il buco. Poi tutti all’osteria, il nostro rifugio, il nostro covo.
- ..ma è evidente, se quelle bestie sono morte cibandosi della carne di quel cadavere, significa che Guendalina è stata avvelenata! -
Sì, non ci sono altre spiegazioni. Qualcuno ha avvelenato la ragazza ed ha sepolto il corpo nel prato. Che triste fine. Ormai la questione ha preso una piega troppo grande per noi, per le nostre chiacchere da osteria: non rimane che mettere tutto in mani più esperte .
- Gente, secondo me è meglio chiamare la polizia. Una cosa è fare i boy scout per aiutare quegli africani, un’altra è un omicidio! O vogliamo finire nei guai? -
L’Arnoldo scuote il capo, dubbioso
- Forse ha ragione Andrea, o forse no perchè occultando quella buca ci siamo già messi nelle rogne.. però da soli non ce la faremo mai a scoprire il colpevole: e se facessimo finta di niente, se ce ne fregassimo? -
Alì ha un sussulto, rovescia la sedia ed i tappetti a terra e sale sulla panca
- Ma come?! Ma che razza di persone siete? Ah già, indigeni.. ma in quel buco c’è una persona, l’avete dimenticato? Finchè si trattava di giocare a guardie e ladri eravate tutti contenti, tanto era soltanto una ragazzina nera: adesso che è finita un palmo sottoterra ve la fate tutti addosso! Non è giusto e se non facciamo qualcosa io spiffero tutto a chi di dovere! -
Ben detto, vecchio Alì.
- Un “grigrì”, una maledizione, non ve l’avevo detto? Ecco cos’è questa storia, una maledizione che si ritorce contro di noi! Alla larga! -
- E piantala Anselmo con questa menata. Secondo me dobbiamo avvisare il padre della ragazza, il vecchio Archimede, poi penserà lui al da farsi. Non possiamo fregarcene e non possiamo nemmeno prendere lezioni da un marocchino, parola di Kociss -

Archimede si affaccia alla porta con i soliti occhi spalancati, sorpreso, incerto. E la sua incertezza rischia di aumentare, diventare paura davanti al silenzio di tutti noi. Già, nessuno ha deciso chi gli dovrà dare la notizia e allora mi faccio avanti io
- Senta signor Archimede.. noi..-
- Sapete qualcosa di Guendalina? Ero a metà della cena, perchè mi avete chiamato qui? -
- Beh, vede, non è facile.. sapesse, laggiù, nel prato.. -
Non so come dirlo, non so da che parte cominciare e, soprattutto, come finire ma, proprio in quel momento la porta si apre improvvisa e due occhi bianchi, una faccetta nera incorniciata da treccine colorate, una figurina smilza in calzamaglia e giubbotto neri, un paio di gambette magre che finiscono in certe zeppe alte una spanna, due manine affilate che affettano l’aria come farfalle, una bocca rossa e larga di denti candidi, una vocina sicura e squillante insomma che inchioda i presenti
- Avete visto il vecchio Archie? Papi, ma sei qui? -
Nessuno crede ai propri occhi ed orecchie, nessuno vuole pensare che cosa stia passando per la testa del vecchio Archimede la cui pelle nera sta prendendo ora i colori del peperone
- Guendalina?!?! Ma.. ma.. da dove spunti? Dove sei stata? Perchè non hai telefonato, oppure avvisato, oppure lasciato un messaggio? Perchè? -
Guendalina non sembra per nulla impressionata
- Ma ti ho lasciato un biglietto sul comodino, no? Non l’avete letto? Tu no perchè non sai leggere, ma gli altri? Non l’avete trovato? -
- Voglio sapere dove sei stata questi due giorni! -
- A casa di Jean, c’era una festa, poi ho dormito a casa sua: sono o non sono maggiorenne? Questa mattina Jean è uscito a fare non so cosa e non è più rientrato: così mi sono stufata e sono tornata a casa. Ora sono qui, sei contento? -
Dalla bocca infuriata di Archimede escono ora una serie di suoni gutturali, una sfilza di erre arrotolate, di acca e kappa così aspirate da gonfiargli i muscoli del collo, il tutto accompagnato da gestacci molto onomatopeici: lingua swili suppongo, ma piuttosto consonante a tutte le parolacce europee. Così la ragazzina sbatte la porta e se ne va, l’aria scocciata ed Archimede la segue risbattendo la porta, l’aria infuriata e noi, l’osteria, rimaniamo lì a bocca aperta e le idee confuse.
- Ma allora.. di chi è quel cadavere? -

È quasi notte fonda ormai, qualche finestra accesa da bagliori televisivi e molti buchi neri dentro i quali russa la gente del quartiere. Una fila di lumini s’infila nel prato armata di vanghe, picconi ed un tenue coraggio mantenuto in circolo da una flebo di grappa. Siamo noi, decisi ad arrivare fino in fondo alla questione.
Il tramestìo degli arnesi che rompono e frugano il terreno si confonde con il rumore del traffico, con il fruscìo delle gomme che corrono sull’asfalto, con i motori che brontolano nel silenzio della notte, con la corrente del fiume che alimenta l’alito della brezza; non c’è il minimo intralcio al compimento dell’opera.
La buca è aperta; le braccia conserte sui manici degli arnesi, le pile puntate verso il cadavere, gli occhi che non osano spingersi più in là della punta delle scarpe
- Forza, qualcuno lo deve fare! - ed Arnoldo, il fottuto barbiere, lo fa. Lo fa mettendosi carponi al bordo della buca, avvicinando la testolina pelata a quella macchia bianca e chiamando luce, più luce
- Ma questo è Andrea!! Questo è l’Andrea, quello che abita di là del prato! -
Siamo di nuovo nell’osteria, il nostro covo accogliente e sicuro. Sono tutti attorno a me. Stupiti, meravigliati.
- Andrea, Andrea, ma cosa ti è successo? -
- A me?! E cosa mi doveva succedere? Oggi è una giornata come le altre, a parte il fatto che mi sono preso una settimana di ferie.. -
- E tua moglie dov’è, perchè non avete fatto le ferie assieme? -
- Perchè, perchè.. ma cosa volete? Lo sapete come funziona per una coppia che lavora: lei ha dovuto mettersi d’accordo con le colleghe e così.. ma domani la raggiungo, mica la lascio sola! -
- Ma lei non è mica sola laggiù, sulle spiagge dell’Adriatico.. giusto? -
- Come sarebbe a dire, che cosa volete insinuare? -
- Che è partita con Alvaro. Che sono almeno due mesi che quei due escono assieme quando fai il turno di notte, ed ieri hanno caricato l’automobile di valigie e di oli solari proprio qui, nel vicolo. Tutti hanno visto. -
- Ma.. ma.. Alvaro chi? -
- Il figlio di Anselmo, il falegname -
- Ma voi siete pazzi! Anselmo di’ qualcosa.. -
- Una maledizione, questi benedetti figli sono una maledizione. L’avevo detto io.. -
- Ascolta Andrea, ma se davvero volevi raggiungere tua moglie perchè oggi saresti andato in questura a rinnovare il passaporto? Mica è espatriata! -
“Mica è espatriata”, le ultime parole comprensibili prima che le voci diventino suoni indistinti ed i volti immagini confuse. Ma i ricordi finalmente più chiari.
I litigi, le gelosie, i sospetti; poi la prova inconfutabile del tradimento. Mia moglie, inequivocabilmente, ha una relazione con un uomo che non sono io! Ed allora pianti, grida, lamenti, minacce ma soprattutto un fallimento. Il mio. E così decido di uccidermi: freddamente, lucidamente una volta tanto in questa mia vita incasinata. Veleno per topi, micidiale.
Prima del sorso fatale, un ultimo pensiero soddisfatto a quando il mio corpo verrà ritrovato riverso sul letto: lo sbalordimento prima, lo spavento poi, la disperazione infine. La mia vendetta.
Quel veleno per topi era il mio passaporto, un passaporto per l’aldilà ed invece sono qui, disteso sopra un tavolo dell’osteria; pallido, rigido, sporco, le budelle all’aria. Come mai? Come sono finito dal mio materasso a due piazze in una fetida buca del prato più squallido della città? Cerco, frugo nel torpore degli ultimi ricordi, i più difficili da risvegliare a quanto pare.
Sì, adesso metto a fuoco mia moglie che entra nella stanza, l’espressione inorridita (e meno male). Mi scuote senza una parola, mi tasta il polso, la gola (lei è infermiera) senza espressione, si attacca al telefono (tipico) senza una lacrima. Pronto Soccorso? Macchè
- Alvaro, vuoi sapere l’ultima?.. - poi sussurri suoi o la perdita di conoscenza mia, ed infine - ..no, no, ma se abbiamo prenotato sei mesi prima.. ci perdiamo anche la caparra.. no! Io non ci rinuncio, ma fatti venire un’idea, no?.. -