domenica 13 aprile 2008

intervalli

L’automobile percorre solida e silenziosa le vie del centro affollato. L’uomo alla guida controlla nello specchietto la testa reclinata del ragazzino addormentato, lo sguardo perso nel traffico della moglie e pensa che quella giornata di festa si è risolta come si deve: tranquilla e serena
- Ho freddo -. Il vecchio seduto accanto ha l’aria compunta e composta di chi si trova un poco a disagio su quella poltrona così accogliente, sopra un’automobile così imponente.
- È il condizionatore, papà. Ora alziamo la temperatura. -

Campo di concentramento di Peschiera.
Il ponte della ferrovia è stato bombardato ed i tedeschi lo stanno ripristinando. Con il nostro lavoro, il lavoro di noi prigionieri. È un inverno freddo e brutto, come ogni inverno quando si mangia poco e si lavora troppo. Ma io e Walter stasera ce ne andiamo. Si scappa, si taglia la corda, si ritorna a casa. Sul Po. Un piano semplice, che si attua così: tre prigionieri ogni vagoncino che scarica il materiale di riporto, io e Walter ci aggreghiamo ad uno di questi e poi scivoliamo assieme a sassi e mattoni nel Mincio. In pieno inverno, durante una bufera di neve. Dentro il fiume fino al pilone centrale che risaliamo fin sotto le traversine della ferrovia. E lì ci nascondiamo ed aspettiamo. I vestiti bagnati ed un freddo bestia. I tedeschi fanno la conta e subito si accorgono, danno l’allarme, arrivano le guardie ed i cani che si spandono nella campagna, lontano. E noi lì, a pochi metri, i vestiti bagnati ed un vento bestia. Finchè se ne vanno, “rauss lusch”.
Chissà che cazzo vuol dire, “rauss lusch”, ma è un ordine e così tutti se ne sono andati. La tela delle braghe è rigida di acqua ghiacciata ed è fatica camminare lungo l’argine gelato, a tentoni nell’oscurità tra pietre aguzze e scivolose, la neve che ti assale a ventate dentro il naso e le orecchie e la speranza è un lumicino inutile.
- Walter, Walter, adesso dobbiamo stare attenti agli infami, alle spie.. -
- Ma dove sono, dove sono queste spie? Non vedo niente.. -

Il semaforo è rosso e la fila di automobili brontola impaziente. Il polacco - un uomo alto, biondo, la faccia sgherra e gli occhi azzurri: diciamo un tipo polacco, insomma - gironzola impacciato con la spazzola da lavavetri.
- No, no, lascia stare.. davvero -
Il vecchio fruga nelle tasche ed apre il finestrino
- Come ti chiami? -
- Boris -
- Ah, Boris. Tieni -

Colonnello medico Boris Vattelapesca, prigioniero russo. Tipo simpatico. Gran fumatore di “Africa”, le sigarette che si fumano al campo. Quarantanove sigarette alla settimana, sette al giorno.
Boris ne fuma il doppio, le sue e le mie. Un uomo istruito, che parla quattro lingue e talmente chiaccherone che quando si accorge che perdo il filo, che non lo seguo, continua i suoi pensieri in francese oppure in inglese. Tanto che importa? La mia mente è altrove. La mia mente è altrove perchè lui mi parla del Dniepr ed io penso agli argini del Po, mi racconta dei campi di grano ed io mi ritrovo tra i platani delle Fratte, mi spiega come ingrassare i maiali russi ed il mio stomaco si contorce di crampi al ricordo dei cotechini di mia madre.
- Ascolta Boris, non mi sento tanto bene, fammi una visitina -
La diagnosi è la solita: ulcera, pleurite, colite cronica..
- E si può guarire? Cosa devo fare? -
- Semplice, devi cantare. Quelli del dormitorio C hanno messo in piedi un coro. Va’ da loro e canta. Canta, amico -
- Lo farò, lo farò di certo, ti ringrazio. Ah Boris, tieni - e gli allungo la mia razione settimanale di “Africa”.
Un gesto che non mi è mai costato perchè io non fumo, però quella notte, la notte della fuga, avrei dato tutto per qualcosa di caldo, fosse stata anche una sigaretta. E brace di sigaretta sembra un fioco lume che ci compare davanti. Lontano o vicino? Questa maledetta tempesta di neve non ci permette di capirlo, di capire. Una luce lontana o vicina, amica o nemica: perchè una luce accesa durante una notte di coprifuoco?

- Che dici papà, è stata una buona giornata, vero? Abbiamo mangiato bene in quel ristorante. Cibo buono, genuino, un buon servizio.. -
- Sì, sì.. da fuori sembrava una casa di campagna, una fattoria, ma dentro era proprio un ristorante coi fiocchi. Tutto molto moderno -

È una locanda, una locanda con tanto di fuoco acceso e qualche cliente ubriaco!
- Walter, Walter, che facciamo? Cosa facciamo? -
- Entriamo perdio, entriamo o moriremo. E se qualcuno farà la spia mi metterò col culo sul camino ed aspetterò i tedeschi! -
È vero, c’è una soglia che noi tutti siamo convinti di riuscire a varcare ma pochi, forse nessuno, hanno la forza. Non Walter, nemmeno io. La sete e la fame ti tolgono energie e il corpo si svuota ma il freddo te lo toglie, il corpo. Il cervello comanda ma non c’è articolazione che risponda, che risponda a modo: un ufficiale senza esercito. Dentro la locanda fumi bassi di croste di polenta e bucce d’arancio, un tepore accogliente come un grembo. Entriamo a testa bassa ma con un obiettivo preciso: la stufa di ghisa alta e nera con piedini come zampette di cane ed il lungo camino arrugginito e rovente che si alza verso il soffitto. Nessuno bada a noi, nemmeno l’oste assonnato.
- Da dove venite? - ci chiede una faccia da faina. C’è sempre una faccia da faina che chiede qualcosa a qualcuno.
- Andiamo verso il Po. Vogliamo andare a casa nostra, sul Po -
- C’è l’Adige da attraversare prima del Po e sui ponti rimasti in piedi non si passa, ci sono i tedeschi.. a meno che non lo vogliate passare a nuoto e direi che vi siete già esercitati nel Mincio. Fredda l’acqua in questa stagione, vero? -

Sì, il lambrusco era un poco troppo freddo, gli è rimasto sullo stomaco. Va bevuto a temperatura di cantina, mica di frigorifero.
Ma adesso, oggi, dove stanno le cantine, le cantine come si deve? L’asfalto, quanto asfalto, i capannoni, le case ristrutturate, le automobili, le insegne, i semafori, i lampioni.. è il tramonto e sulla tangenziale fari si accendono ad uno ad uno come un presepe così veloci che subito diventa notte. I nostri tempi cambiano, ma il tempo, il signor tempo, quello di nessuno, quello che non è nostro nè vostro, siamo sicuri che cambi? Il vecchio ha ancora negli occhi la polvere bianca, i paracarri, i cipressi che costeggiavano quella stessa strada così diversa oggi a bordo dell’automobile di suo figlio. Il vecchio ha ancora nelle orecchie quegli ordini abbaiati mentre se ne stava nascosto sotto le traversine del ponte e ricorda le divise dell’esercito nemico ed i suoi cani feroci; ma dopo, nella sua lunga vita, ancora e ancora ci sono stati ordini abbaiati e divise non amiche. E qualche cane incolpevole ma feroce. Perciò il vecchio se ne sta seduto con l’aria serena. Ogni casa, ogni ponte, ogni campo ha una storia da quando lui ne ha il ricordo e se pure sono cambiate le facciate, le arcate, le colture lui ne possiede l’anima. Perchè le conosce da sempre, non c’è niente di nuovo; nulla che lo possa spaventare.
L’automobile entra in uno svincolo, lasciandosi alle spalle le indicazioni per l’aeroporto.

Il campanile batte mezzogiorno ma in campagna non si lascia ancora il lavoro, si aspetta la mezza. E come si fa a sapere quando scocca la mezza? Semplice, arriva lui, l’amico Pippo. I ragazzi si sdraiano all’ombra del carro del fieno ed aspettano con lo sguardo nel cielo e lui arriva, puntuale. Il piccolo aereo spunta basso dall’orizzonte, la carlinga che luccica dietro l’elica, un’arma che si staglia nera controsole e che non spara mai; occhi che osservano, obiettivi che spiano, orecchie che ascoltano e poi l’ala d’argento vira con un urlo pigro ed affaticato. Si allontana per ritornare il giorno dopo, alla mezza, con quel muso da faina.

L’automobile entra nella corte, nel largo piazzale recintato da archi panciuti ed oscuri; rischiarato dalla luna piena, ravvivato dagli odori di terra grassa, molestato da nugoli di zanzare.
A casa finalmente.

Via, via dalla locanda fumosa ed accogliente, calda e traditrice: la faccia di faina è scomparsa ed io e Walter sappiamo benissimo che cosa significa. E allora fuori, nella tormenta, camminando a caso nella notte, seguendo quello che ai nostri piedi gelati sembra una strada.. ma a noi che importa di una strada? Certo, quando abbiamo preparato il nostro piano di fuga avevamo le idee chiare: uno solo il percorso da seguire. quello per la Bassa, quello di casa nostra, quello del ritorno. E adesso? Una via di fuga, soltanto quello, un sentiero appena tracciato ma sconosciuto a tutti, soprattutto al nemico, un vicolo non cieco, un filo spinato sbrecciato, un fienile abbandonato, una casa diroccata.
Invece siamo andati a sbattere contro un elmetto tedesco che ci punta in silenzio la torcia elettrica. Lui ci guarda, noi lo guardiamo.
- Banditen? -
- Sì, “banditen”. E tu? -
- Österreich. Addio. -
- Addio -
Chi ci crederebbe, chi ci avrebbe mai creduto, in una notte così nevosa e ventosa, dentro un buio senza speranza: è colpa del freddo, ho pensato, è tutto merito del freddo.